Il filosofo e sociologo tedesco Ralph Dahrendorf nel 1964 teorizzò quelli che sono stati i fattori che hanno determinato il passaggio dalla società industriale a quella post industriale. L’anno seguente, Daniel Bell, sociologo statunitense, aggiunse alle cause individuate dal collega europeo, ulteriori motivi che hanno caratterizzato questo nuovo sconvolgimento della società: l’emergere della classe media, lo sviluppo del settore terziario, la caduta della centralità dell’industria con la conseguente crescita della centralità del sapere tecnico e manageriale, la fine delle ideologie e sviluppo del benessere e quello dell’informazione.
Questa nuova epoca viene definita spessa come post industriale. Tale termine mi sembra improprio dato che l’industria si trasforma ma non scompare: grazie all’automazione il numero degli operai è decisamente diminuito ma l’industria rimane un elemento portante della società e dell’economia. Risulta invece opportuno vedere come la città è cambiata in seguito a questi mutamenti epocali passando dalla metropoli industriale al superamento di questa.
La città programmata per funzioni elementari fisicamente distinte (residenza, produzione, terziario, servizi) è un procedimento che poteva funzionare durante l’epoca industriale ma per la città post industriale è un procedimento inadeguato a esprimere i molteplici processi innovativi. Esiste oggi una nuova concezione di città: cambiano i contenuti della vita urbana e quindi devono cambiare i contenitori. Frammentazione, edonismo e la ricerca della bellezza sono le principali caratteristiche della civiltà postmoderna cambiando in tal senso anche i modelli architettonici: l’architettura si trasforma in seducente forma di comunicazione.
“È un’architettura che fa riferimento all’era elettronica di oggi, non all’era industriale di ieri: la nostra è l’era postindustriale. Un’ architettura che adotta la tecnologia dei LED, i cui pixel diventano le tessere mobili e mutevoli del mosaico del nostro tempo e la cui tecnologia elettronica è esteticamente adeguata all’aspetto multiculturale che contraddistingue la nostra epoca e che è in grado di darle benessere e tolleranza, è un’architettura che riconosce di nuovo un ruolo centrale dell’arte in quanto comunicazione ed è conscia di una qualità essenziale del nostro tempo, che è il pluralismo”. R. VENTURI, “Verso un’architettura culturalmente tollerante”, Domus, n.816, giugno 1999, p.2.
Proprio da queste nuove concezioni nasce il riscatto della capitale sabauda: grazie all’idea visionaria e suggestiva di alcuni capaci di seguire i cambiamenti della città, le fabbriche abbandonate di Torino sono potute diventare delle nuove centralità come università, laboratori, enti fieristici, musei e teatri. Il vero cambio di pelle di una città che si scolla di dosso il suo passato industriale bisogna leggerlo a partire dal Lingotto: un tempo colosso lontano dal centro e destinato alla produzione in catena di montaggio, oggi è un gigantesco luogo di ritrovo per funzioni pubbliche e collettive.
A fianco alla città in cui si stanno producendo sempre meno automobili sta sorgendo una metropoli futuristica: i grattacieli che sorgeranno modificheranno profondamente lo scheletro architettonico di Torino tracciando un’identità fisica e culturale diversa da quella che conosciamo. Tuttavia, la città del futuro, io vorrei immaginarla così…
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